Workshop antropologico: la stepchild adoption

 

Partendo dal tentativo di dare una definizione della stepchild adoption (adottabilità del figlio da parte del partner del suo genitore), la prof.ssa Assuntina Morresi, ha aiutato la ventina di studenti partecipanti al Workshop, a comprendere che le conoscenze acquisibili dalle informazioni offerte dai media, dai social o dal senso comune, non sono sufficienti per una comprensione profonda della portata antropologica di questo che vuole essere un nuovo istituto giuridico.

Se infatti nel quadro del matrimonio eterosessuale la stepchild si muove nella ratio della legge dell’adozione (centrata sul diritto del figlio ad essere adottato), spostandosi nel quadro delle unioni civili omosessuali diventa lo strumento giuridico che legittima la coppia ad avere un figlio comune (centrata sul diritto della coppia ad avere un figlio), rendendo possibile l’adottabilità del figlio generato attraverso processi tecnici (inseminazione eterologa con maternità surrogata per le coppie maschili e fecondazione eterologa di una delle parti nelle unioni femminili) eticamente discutibili e legalmente vietati (maternità surrogata).

Si tratta quindi di un istituto giuridico che, trasferito alle coppie omosessuali, finisce per capovolgere la ratio della norma riguardante l’adozione. Inoltre se nell’adozione viene seguito il modello naturale (procreazione da due genitori biologici), il che comporta che il bambino sa di essere stato generato da un padre e una madre biologici, che – a certe condizioni – potrà anche decidere di conoscere, nella stepchild adoption si introduce uno slittamento antropologico nella comprensione stessa della generazione che è definita non biologicamente ma secondo un modello contrattuale. E’ infatti il contratto tra le parti che definisce chi è genitore e chi non lo è: la madre “portatrice” che, nella maternità surrogata, rinuncia a comparire nell’atto di nascita (pur se in alcuni paesi è chi partorisce che di diritto è considerata madre), il partner che mette il seme, la persona che dona il gamete e che rinuncia alla genitorialità… In questo modello si assiste per la prima volta alla possibile scomparsa della maternità o della paternità. Nel matrimonio o nelle forme simil-matrimoniali come le unioni civili, infatti, la filiazione si traduce solitamente nel formulare l’atto di nascita del bambino come figlio della coppia omosessuale, e il genitore biologico scompare dai documenti anagrafici del nato. Nei matrimoni/simil matrimoni di coppie maschili, infatti, non c’è diritto alla madre, che è negata; così come in quelle femminili, è il padre a dissolversi, per dar adito alla parvenza di una coppia omosessuale equiparabile nelle possibilità fecondative ad una coppia eterosessuale. 
Sia il tentativo di sovrapporre ideologicamente (quasi come si trattasse di un’altra reale possibilità generativa) la fecondità della coppia eterosessuale a quella omosessuale, che lo slittamento da un modello generativo a contrattuale, comportano un cambiamento antropologico nella comprensione dell’essere umano, della sua sessualità, delle sue relazioni sociali. La stepchild adoption, quindi, non riguarda tanto il desiderio e la capacità di una persona omosessuale di voler bene e di crescere un bambino – che ovviamente non è oggetto di discussione – quanto la comprensione stessa di cosa sia la generazione umana e su cosa essa si fondi.

In tal senso pare che questo istituto giuridico, come altri temi scottanti del dibattito antropologico contemporaneo (dal gender, alle unioni civili, alle tecniche procreative ed eugenetiche, fino al transumanesimo), continui sulla linea di quella comprensione dell’uomo in cui il dato biologico del corpo non è portatore di informazioni e di un valore che definiscano la persona, fino al punto di essere ignorato per essere sostituito con ciò che la persona decide di essere: con il dato culturale, giuridico, in un chiaro primato del “cogito ergo sum” sulla res delle leggi naturali e della legge naturale.
Siamo molto lontani dalla visione cristiana valorizzata dall’Incarnazione del Verbo in cui l’anima è la forma del corpo: ciò che permette di affermare che “io sono il mio corpo” e – come insegna S. Giovanni Paolo II nella sua Teologia del corpo – che tutto ciò che nell’uomo è fisico è substrato biologico alla vocazione umana della persona, in una profonda unità di significati.

Un incontro ricco di stimoli e di domande che sicuramente avvia e obbliga all’approfondimento delle questioni trattate.