Politica ai tempi della pandemia: poteri e limiti

di Lorenza Moscara.

In chimica un catalizzatore è una sostanza in grado di facilitare e velocizzare una reazione abbassando il livello di energia necessario affinché questa avvenga. Anche in termini di fenomeni sociali si è visto che alcuni eventi perturbanti di grande portata come i terremoti, possono diventare nella popolazione colpita acceleratori di alcune tendenze. Potremmo dire che certi stress danno una spinta, tutt’altro che gentile, a processi umani in sordina, claudicanti o non francamente apprezzabili che emergono dopo aver ricevuto un’improvvisa accelerazione. La grande scossa Covid19, pur senza macerie di pietra, sta facendo traballare gli equilibri socio-politici di un mondo intero. Di quali cambiamenti la pandemia potrebbe essere promotrice? E in particolare, cosa succede a una politica che si muove sotto il torchio dell’emergenza? Ne abbiamo parlato con un esperto di fama internazionale, il professore Luca Diotallevi, docente in Sociologia presso l’Università Roma Tre.

Ci sono dei movimenti profondi che scuotono le fondamenta dell’ordine sociale. Migliorano le componenti che stanno emergendo e peggiorano quelle già in crisi. Anche di fronte alla pandemia ci sono dei processi per cui è possibile prevedere un avanzamento. La digitalizzazione e automatizzazione del lavoro, per esempio, erano fenomeni in corso che forzosamente hanno ricevuto un incentivo in questo periodo. Presumibilmente possiamo attenderci, anche ad emergenza terminata, una riorganizzazione di alcuni settori lavorativi verso forme di smart-working o lavoro da remoto e il maggiore utilizzo dei mezzi tecnologici per la comunicazione e la formazione a distanza.

Per altri aspetti, invece, ci attendiamo dei cambiamenti ma ci muoviamo ancora di più nell’ambito delle ipotesi. Come influirà la spinta propulsiva della crisi Covid sul panorama geopolitico? quali altre crisi cavalcherà esacerbandone gli effetti? Non abbiamo la sfera di cristallo, ma analizzando il contesto anche con un occhio al passato,si aprono scenari di possibilità sull’esercizio del potere politico davanti ai quali la coscienza è chiamata a vigilare.

In tempi di emergenza, cerchiamo punti fermi e siamo più disposti a seguire delle regole. La necessità di uscire dalla crisi il prima possibile avvicina cittadini e politica, rinsalda il patto di fiducia tra amministratori ed elettorato. Gli uni hanno bisogno della collaborazione e del sostegno politico della comunità per portare avanti dei progetti di salvaguardia del bene collettivo. D’altra parte, gli sforzi richiesti e un’eventuale cessione di qualche libertà personale diventano meglio accetti dalla popolazione che segue più di buon grado il faro del potere di fronte alla promessa di essere traghettata oltre le intemperie del mare in tempesta. Fino a qui, tutto bene.

Sappiamo però, che in momenti di incertezza attecchiscono anche atteggiamenti di chiusura e regressione. Talvolta forze politiche che si propongono come detentori di verità univoche e soluzioni facili acquisiscono consensi. Invocano e ottengono potere, salvo poi usarlo in maniera sproporzionata contro quegli stessi cittadini e istituzioni che glielo hanno conferito, anche quando non ce ne sarebbe più bisogno.

Spinte sovraniste, individuazione di presunti nemici a cui attribuire responsabilità e ascesa di politici messianici e liberatori sono un correlato dei tempi di crisi che abbiamo potuto apprezzare nei corsi e ricorsi storici. L’ uomo forte che si riveste di sacralità e si proclama in grado di portare il paese oltre il guado chiedendo pieni poteriper farlo, è un’immagine tanto fascinosa quanto infida. Basti pensare all’attuale e vicina Ungheria di Orban. Davanti alla minaccia di un pericolo reale o presunto, l’idealizzazione di una autorità politica trainante a cui aggrapparsi sembra essere una qualche risposta popolare ricorrente alla paura. Qualche volta con conseguenze catastrofiche, se pensiamo agli “-ismi” del secolo scorso e agli anni che abbiamo impiegato per disfarcene.

Anche senza estremizzare, più in generale nei momenti bui della storia di un popolo notiamo farsi strada degli atteggiamenti politici accentratori; in parte giustificati dalla necessità di essere più efficienti e veloci per controllare situazioni drammatiche. A tratti invece, alcune tendenze centraliste sono meritevoli di riflessione e vigilanza, durante e fuori dall’emergenza, perché possibili spie di una deriva autoritaria.

A partire dalla fine degli anni 60 abbiamo assistito, almeno in alcune realtà del mondo, al disfacimento della pretesa dello Stato di dominare un territorio esercitando autorità su tutti gli aspetti della vita. Successivamente, con l’avvento della globalizzazione, vediamo invece l’emergere di istituti specializzati in singoli problemi, non legati ad un territorio ma investiti di potere in merito a specifiche competenze: l’organizzazione mondiale della sanità, la banca centrale europea e quella mondiale, le chiese globali ne sono esempio. In questo modo, non è solo il singolo stato a stabilire cosa si debba fare in economia, in educazione, in famiglia o nelle questioni sanitarie. C’è uno spacchettamento dei poteri che conferisce autorità a strutture sovranazionali per ordine di competenza accanto a un riconoscimento dei diritti e delle libertà individuali. Questa è la modalità tipica delle società aperte in cui i confini nazionali diventano più fluidi, le possibilità di scambio e di interazione si moltiplicano e a dettare linee di comportamento, regole e interpretazioni delle leggi sono anche organismi “post-statali”.

Quella che emerge è una realtà caotica, polifonica, di difficile interfaccia ma garante della democrazia. In contrapposizione a questo sistema c’è quello delle società chiuse come la Cina, la Russia, la Turchia. Vale a dire modelli dispotici in cui lo stato limita la liberta dei suoi cittadini in cambio di una pretenziosa garanzia di sicurezza di cui esso si fa carico in rapporto agli stessi. Ma sono anche strutture politiche in cui l’accentramento del potere nega la possibilità di parola ad ogni altra voce non conforme alla lingua di chi governa.

Di questa alternativa e dei vantaggi di vivere in una società aperta dobbiamo mantenere consapevolezza perché la crisi rilancia lo scontro competitivo fra i due modelli societari e si presta a contaminazioni capaci di minare anche le nostre conquiste civili.

Dagli anni 2000 in poi, eventi di grande impatto come la distruzione delle torri gemelle o la grande recessione partita dalla bancarotta di Lehman Brothers, hanno fatto serpeggiare anche nelle società aperte la nostalgia del centralismo.

Di fronte al rischio di una deriva autoritaristica è saggio ricordare che ciò che rende civile la politica è la limitazione del potere politico: rispetto ad altri poteri (scientifico, economico, religioso) e in seno alla politica stessa rispetto alle altre forze che partecipano al dibattito. La suddivisione e l’autonomia dei poteri, l’efficacia dei contrappesi e la garanzia d’espressione delle diverse parti in gioco sono i costituenti di una società poliarchica e quindi intrinsecamente libera.

Se l’emergenza è sanitaria, come nel nostro caso, la politica è chiamata a relazionarsi soprattutto con il mondo scientifico. A maggior ragione per una questione come il Covid, nuova anche per gli scienziati. La scienza però, non offre certezze, è per costituzione ipotetica e limitata. Si affida a un metodo rigoroso per produrre dei risultati quanto più verificabili, affidabili, vicini alla realtà oggettiva. Ma semplifica la realtà per studiarla, la scarnifica di fattori che potrebbero essere confondenti, studia un aspetto per volta, procede gradualmente integrando le conoscenze. Accetta lo scarto fra i suoi risultati e la complessità del reale, non ha la pretesa di una conoscenza assoluta e indefettibile. Per questo la scienza mette a disposizione i suoi risultati ma non decide le sorti di una nazione. E’ la politica che si assume l’onere della prassi, facendo il salto dal focus al grandangolo, dall’ipotesi alla scelta. Per fare questo deve tenere conto di tutte le istanze comunitarie (scientifiche, sanitarie, economiche, sociali, spirituali), contemperare le richieste dei vari portatori d’interessi e anche delle voci d’opposizione governativa.

Chi amministra la res pubblica è chiamato a fare una sintesi che si traduca in decisioni in grado di salvaguardare il bene comune. Di quelle decisioni, la politica si assume piena responsabilità accettandone limiti e incertezza. Tanto più l’esercizio del potere si apre alla pluralità delle vedute, tanto più si tutela dalla fallibilità delle sue scelte.

Un compito molto complesso in termini pratici. E’ opportuno però ricordare che proprio davanti alla necessità di manovre immediate e poderose per affrontare una crisi, si palesa il tranello di credere che la democrazia sia un intralcio che rallenta i tempi di lavoro e ostacola l’efficienza. Quando invece rimane antico e saldo bastione a salvaguardia dei valori liberali.

Non a caso, è tipica delle società chiuse la deresponsabilizzazione delle scelte da parte della politica, il mancato confronto con gli altri poteri, la manipolazione o la negazione di conoscenze derivate dalle altre scienze.

Che ci piaccia o no, ci possono essere scelte più o meno sagge ed efficaci ma il rischio zero non esiste. Lo Stato che difende dal nemico promettendo di abbatterlo e salvare dalla minaccia i suoi sudditi è un’immagine rassicurante ma ingannevole. E l’illusione di controllare totalmente un pericolo può diventare un’arma per giustificare un utilizzo del potere che non vuole avere limiti.

Un’altra delle caratteristiche delle società chiuse è l’utilizzo strumentale di simboli religiosi per legittimare il proprio potere. E’ una tendenza che abbiamo visto esprimersi anche alle nostre latitudini, brandendo crocifissi e stringendo rosari davanti ai media tra una mossa politica e l’altra. Autoinvestirsi di sacralità è uno stratagemma per acquisire più potere, mistificando valori di santità. Salvo poi sbarazzarsene quando la situazione si fa sconveniente: ricordiamo che la monopolizzazione dell’educazione dei giovani ha costituito la causa principale dei contrasti tra il regime fascista e gli organismi giovanili di Azione Cattolica fino a decretarne lo scioglimento.

Il Deus-ex machina di turno da cui dobbiamo guardarci, in politica e in ogni campo della conoscenza, ha la caratteristica di non accettare confini al potere, coesistenza di pluralità nell’autorità e pertanto possibilità di scelta. Inoltre, sacro e santo, sebbene nella nostra lingua siano usati in maniera intercambiabile non sono la stessa cosa. Il sacro è un bene o un servizio di particolare qualità – ricorda il prof. Diotallevi –  è commerciabile, ha effetto automatico, indipendente da chi ne sta di fronte. Il santo invece considera una relazione, che include e sollecita la libertà, l’intelletto, la volontà dell’altra persona, pertanto non è manipolabile. Il Cristianesimo, in quanto relazione dell’uomo con Dio, nell’ottica del dono e della libertà di accoglierlo, non è la religione della sacralità.

A proposito di relazione, anche il diritto, inteso come diritto soggettivo, è dentro una relazione nel senso che si configura all’interno di un riconoscimento comune di quel diritto fra due attori. Un individuo ha la possibilità di esigere qualcosa da qualcun altro che riconosce il concedergliela come suo dovere. Nel modello italiano il diritto delle persone non coincide con la legge formulata dal potere politico, che è appunto fallibile. La nostra è un’eredità della tradizione romana in cui il diritto, staccatosi dalla religione, si è istituito come sistema a sé rimanendo autonomo rispetto alla politica. In alcune società però, ritroviamo la legge positiva a fondamento del diritto. E il cristiano come si pone davanti alla legge e al diritto?

Il cristianesimo partecipa alla ricerca del diritto, scruta il senso della legge secondo le categorie della fede, si interroga sulla corrispondenza tra legge e diritto in un dinamismo della coscienza che guarda all’ortodossia (buona regola) e all’ortoprassi (buon comportamento).

Alla base di ogni tirannia c’è il delirio dell’esistenza di una sola verità, di un solo potere, che si erge a sfidare Dio. Anche gli uomini del racconto della Genesi hanno “una sola lingua e le stesse parole” e vogliono costruire una torre “la cui cima tocchi il cielo”. Dio interviene confondendo la loro lingua “perché non comprendano più l’uno la lingua dell’altro”. La dispersione degli uomini tramite la moltiplicazione delle lingue obbliga ciascun uomo da quel momento in poi a convivere e interfacciarsi con una diversità, per lui caotica e incomprensibile, ma necessaria.

Ringraziamo il professor Diotallevi per la ricchezza degli stimoli che ci ha consegnato, compresa quest’immagine biblica che sintetizza un concetto riecheggiato più volte in questa intensissima chiacchierata.

Il racconto della torre di Babele ricorda all’uomo che la ricchezza della vita, e della vita politica, nasce dall’accettazione della varietà e del plurilinguismo. E che a fondamento della democrazia e di ogni progetto costruttivo che voglia fiorire nella polis c’è lo sforzo di far coesistere, tradurre e integrare quelle voci diverse.