Il dilemma dell’ultimo letto

di Lorenza Moscara

Scegliere a chi dare una speranza di sopravvivere al tempo del virus.

“Vuoi più bene alla mamma o al papà?” Ci sono domande che non dovrebbero mai porsi perché mettono l’interlocutore nella condizione di sbagliare, qualunque sia la risposta. E cosa succede quando non si può esimersi dal decidere? La scelta è obbligatoria ma angosciante, carica di responsabilità e sensi di colpa. 

Una sorta di doppio legame batesoniano è quello che alcuni operatori sanitari si sono trovati ad affrontare durante l’emergenza Covid-19. Un solo respiratore e due persone che soffocano: chi salvo? Bisogna scegliere e anche in fretta. L’alternativa è tra la vita e la morte. 

Ne abbiamo parlato con Assuntina Morresi, professoressa nel Dipartimento di Chimica dell’UniPg e membro del Comitato Nazionale Bioetica nel secondo incontro di Educazione alla Coscienza targato Pastorale Universitaria. 

Nel terribile marzo appena trascorso, in alcune aree del nostro paese maggiormente colpite dall’ onda d’urto letifera del virus, posti letto, attrezzature mediche salvavita e personale specializzato risultavano insufficienti per rispondere alla richiesta assistenziale della popolazione. Nonostante gli sforzi economici e organizzativi, le opere di generosità e l’ingegno dispiegati per arginare un’emorragia senza precedenti, la possibilità di risposta rimaneva oggettivamente sottodimensionata rispetto alle esigenze cliniche. Gli epidemiologi spiegavano la necessità pressante di ridurre i contagi per permettere al sistema sanitario di reggere: appiattire la curva avrebbe permesso di diluire nel tempo il numero di persone ammalate e bisognose di cure ospedaliere e intensive. I media rilanciavano refrain per aumentare la consapevolezza del problema e la compliance della popolazione alle restrizioni: Restate a casa. Meglio annoiati che intubati. In ospedale non c’è posto per tutti. Non abbiamo abbastanza ventilatori. Gestiamo i pazienti a casa fino a quando non peggiorano. Mancano i medici. Bisogna assumere infermieri. Non ci sono DPI per tutti. 

Il 6 marzo la SIAARTI (Società Italiana di Anestesia Analgesia Rianimazione e Terapia Intensiva) emetteva prontamente un documento con cui allertava dell’impossibilità, a fronte delle risorse disponibili, di prestare cure intensive a tutti coloro che ne avessero bisogno. Apriva, altresì, un capitolo di discussione su eventuali criteri di accesso alle cure per cercare di condividere decisioni gravose e sollevare parzialmente i clinici da una responsabilità emotivamente insostenibile. In particolare, il punto 3 di queste raccomandazioni propone la possibilità in talune circostanze di porre un limite d’età per l’accesso in terapia intensiva così da riservare risorse a chi ha più probabilità di sopravvivere e più anni di vita salvata davanti. “In uno scenario di saturazione totale delle risorse intensive”- si legge – “ decidere di mantenere un criterio di “first come, first served” equivarrebbe comunque a scegliere di non curare gli eventuali pazienti successivi che rimarrebbero esclusi dalla Terapia Intensiva.”

La catastrofe cui stiamo assistendo ci costringe per la prima volta a rivedere in qualche modo una convinzione data per scontata in condizioni normali e in un sistema sanitario come il nostro: se necessario sarò curato e assistito, qualunque siano le mie condizioni, secondo i principi dell’universalità, dell’uguaglianza e dell’equità. Una realtà impossibilitata a soccorrere tutti i cittadini bisognosi è qualcosa con cui non avevamo fatto i conti prima d’ora. La medicina delle grandi emergenze e delle catastrofi è quella disciplina che si occupa di individuare la risposta sanitaria corretta quando bisogna lavorare in condizioni ostili e le risorse sono insufficienti. Fino ad oggi, pochi di noi la conoscevano. L’avevamo relegata idealmente a calamità che affliggono paesi in via di sviluppo che, per definizione, immaginiamo abbiano meno mezzi con cui gestire un evento funesto o a episodi circoscritti nel tempo e nello spazio, come un disastro aereo. Invece abbiamo imparato che ci sono fenomeni imprevedibili come le pandemie che arrivano e mettono in ginocchio anche i grandi stati del mondo. Che per quanto la situazione di partenza sia all’avanguardia, l’intensità di determinati eventi e la loro durata nel tempo possono risultare sproporzionati rispetto alle possibilità di farci fronte.

Davanti a problemi nuovi, si presentano domande nuove che hanno bisogno di risposte nuove. Nella situazione che stiamo attraversando, anche se le riflessioni si devono declinare in un panorama drammatico e oscuro, la coscienza è chiamata a interrogarsi per individuare strade percorribili il più possibile virtuose e rispettose della vita umana. Il Comitato Nazionale Bioetica, nella voce di una dei suoi rappresentanti, ci racconta il lavoro solerte e condiviso da componenti di diversa sensibilità, che c’è dietro l’elaborazione del parere emesso l’8 aprile 2020: Covid 19: la decisione clinica in condizioni di carenza di risorse e il criterio del “triage in emergenza pandemica”.

L’idea fondamentale che si scorge è: non  categorie ma persone.

Il CNB riconosce nel criterio clinico il più adeguato punto di riferimento. Se bisogna scegliere a chi riservare risorse salvavita e a chi negarle, il criterio non può essere nessun tipo di categoria astratta, aprioristicamente definita: gli anziani, i pazienti oncologici, i tetraplegici, i depressi etc. La proposta è quella di una scelta caso per caso e non per gruppo di appartenenza, sulla base di indicatori clinici e prognostici. L’età come parametro a sé quindi non è eticamente accettabile, da solo, come valido motivo di esclusione. Significherebbe utilizzare un criterio anagrafico puro come scala di valore della vita. Sebbene sia vero in generale che una persona anziana ha più facilmente comorbidità e meno possibilità di rispondere bene alle terapie, non è detto che sia così in assoluto. Serve una valutazione clinica che tenga conto di tutti i fattori a disposizione: della gravità del quadro clinico, dell’urgenza, delle malattie concomitanti, di eventuali condizioni di terminalità, della speranza di vita, della proporzionalità di un trattamento e dei benefici presumibilmente attesi in quel singolo individuo. 

Il principio non è salvare “più anni di vita” ma permettere a quante più persone di sopravvivere. Vista così, la scelta è davanti al singolo, dopo averlo in ogni caso valutato e dopo aver giudicato, per lui, l’appropriatezza clinica di un determinato trattamento. Questa valutazione, personalistica, va inquadrata nell’attualità delle risorse disponibili in quel momento e tenendo conto delle condizioni delle altre persone valutate, che necessiterebbero delle stesse risorse sanitarie. Si potrebbero creare delle simil liste di attesa dinamiche in cui il parere di più professionisti, che intervengono a comporre una valutazione clinica globale, fa avanzare o retrocedere quell’assistito nella priorità di accesso alle cure. La domanda è: in quali pazienti il trattamento può risultare maggiormente efficace? in chi garantisce maggiori possibilità di sopravvivere?

E’ senza dubbio complesso. Stabilire la proporzionalità di un trattamento è tanto più difficile di fronte a una patologia nuova che stiamo imparando a conoscere sul campo di guerra nelle sue caratteristiche, nei suoi decorsi e complicanze. Non abbiamo avuto alle spalle protocolli prestabiliti, linee guida e letteratura di riferimento. Dovremmo tenerne conto anche nei profili di responsabilità professionale in carico agli operatori sanitari.

Dai nostri schermi ci siamo domandati se c’è un principio per meritare le cure o viceversa per esserne esclusi in virtù di comportamenti personali sbagliati. Se finisco in ospedale per intossicazione da droghe o alcool piuttosto che per un incidente automobilistico mentre mi sposto  senza un motivo di necessità, ho il diritto di togliere un posto letto a chi ci arriva in insufficienza respiratoria da Covid? 

Ci siamo chiesti quale sia il destino di altri malati, non Covid, che in questa circostanza vedono sospese o limitate possibilità di cura e accesso alle risorse sanitarie per la profonda riorganizzazione che ha attraversato i servizi. 

Abbiamo pensato alle categorie più fragili, anziani, disabili, pazienti psichiatrici. A quanto siano diventati ulteriormente più vulnerabili di fronte al rischio di contagio e alla necessità di tutele di cui hanno bisogno.

La selezione nell’accesso alle cure e il criterio della maggiore probabilità di guarigione serpeggeranno anche dopo l’emergenza? Il dubbio è che i ragionamenti dettati da questa condizione eccezionale possano traghettarci verso un tipo di medicina utilitaristica che si occupa dei suoi pazienti più prestanti e lascia indietro gli altri.

Travolti da emotività, ricerca di giustizia, dubbi e timori legittimi, possiamo guardare per orientarci ai princìpi della nostra Costituzione, ai fondamenti del nostro Sistema Sanitario e alla fede. Questi ci vengono incontro per ribadire la centralità della persona umana e il riconoscimento del suo valore e dei suoi diritti fondamentali indipendentemente da attributi di età, sesso, stato sociale ed economico, condizione sanitaria, appartenenza etnico-religiosa e anche responsabilità personali correlate alla malattia. I criteri che abbiamo riconosciuto come veri, perché conformi alla Verità, sono veri sempre, nell’ordinarietà e nell’eccezione, ricorda la professoressa Morresi.

Sul sito online della SIAARTI leggiamo il motto: Pro vitam Contra dolorem semper. Che possiamo  continuare a ricordarcene, nell’emergenza e nel ritorno alla normalità, di fronte a chi soffre.

                        

                                                                                                                                                   Lorenza Moscara